3 marzo 1991: La grande rivolta di Los Angeles

Il 3 marzo del 1991 il tassista afroamericano Rodney King, assieme a due passeggeri, era alla guida della sua auto lungo la Foothill Freeway, nell’area della San Fernando Valley di Los Angeles, quando una pattuglia in moto della polizia stradale rilevò un eccesso di velocità. I due agenti gli intimarono di fermarsi, ma King proseguì perché temeva per la sua licenza da tassista.

L’inseguimento proseguì per 13 kilometri, fino ai quartieri residenziali di Los Angeles, intervennero diverse pattuglie e un elicottero. Poi i due agenti in moto, Tim e Melanie Singer, bloccano Rodney e a breve si aggiunsero il sergente Koon e gli agenti Powell, Wind, Briseno e Solano. Nessuno a bordo dell’auto fermata era armato e il tassista si consegnò agli agenti ridendo e salutando ironicamente l’elicottero che stazionava sopra di loro. La reazione dei poliziotti fu durissima, si accanirono contro Rodney King con un violento pestaggio a colpi di manganello. Un testimone casuale da un balcone riprese la scena.

Il video fece il giro delle televisioni e contribuì a portare a processo il sergente Koon e gli agenti Wind, Powell e Briseno. Incredibilmente, nel 1992, furono assolti. Nella giuria, che nei processi americani viene scelta con molte trattative e compromessi, non c’erano neri: nove giurati erano bianchi, uno era ispanico, uno asiatico e soltanto uno aveva il padre afroamericano. Il 29 aprile 1992, dopo sette giorni di discussioni, la giuria, dopo aver esaminato il video, prosciolse tutti e quattro dall’accusa di aggressione, e tre su quattro anche dall’accusa di uso eccessivo della forza.

La sentenza scatenò immediatamente la rivolta degli afroamericani a Los Angeles, con scontri, auto in fiamme, barricate, saccheggi, oltre duemila feriti e 63 morti, un miliardo di dollari i danni, in un clima in cui le molestie e la violenza da parte degli ufficiali della polizia nei confronti dei membri della comunità afroamericana era pratica quotidiana. Al terzo giorno di sommosse qualsiasi evento a Los Angeles, o in altre città in cui ci furono disordini, fu sospeso. Il servizio di trasporto pubblico metropolitano si fermò. Diverse superstrade furono chiuse. L’aeroporto internazionale subì forti disagi a causa delle colonne di fumo. La polizia dovette arretrare di fronte alla rivolta. Dovettero intervenire l’esercito, i marines e persino la guardia nazionale.

Con lo schieramento dei militari, l’ordine fu ristabilito in tutta la città, ma durante i disordini furono uccise 63 persone, vi furono 2.383 feriti e più di 12.000 arresti.

Una volta calmate le acque vennero riaperte le indagini. Il sergente Koon e l’agente Powell furono condannati per violazione dei diritti civili, a 32 mesi di carcere, mentre Wind e Briseno furono ancora una volta prosciolti. 

Né criminali né terroristi, ma difensori e difensore della Madre Terra e del clima

E’ stato reso pubblico nei giorni scorsi il primo Rapporto sulla situazione dei difensori del clima in Europa, prodotto dal Relatore Speciale ONU sui Difensori dell’Ambiente Michel Forst.1

di Francesco Martone

da ecor.network

Forst, già Relatore Speciale ONU sui Difensori dei Diritti Umani si era già occupato in quel ruolo della questione relativa ai difensori dell’ambiente, in particolare nei paesi del cosiddetto “Sud del mondo”.2 Da allora, seppur con modalità spesso differenti, e non con casi drammatici come quelli delle centinaia di omicidi di difensori dell’ambiente e della terra in paesi come la Colombia, Messico o Brasile, l’onda lunga della repressione è arrivata anche in Europa. Si moltiplicano i casi registrati di violazioni dei diritti di chi difende l’ambiente nel nostro continente come ricordato anche dalla Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa Dunia Mijatović 3. Il nostro paese non fa eccezione. Va a tal riguardo ricordato che l’Italia è tenuta a rispettare e tutelare le attività dei difensori dei diritti umani anche al suo interno. E per difensori dei diritti umani, secondo la definizione contenuta nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani (che lo scorso anno ha celebrato il suo 25esimo anniversario) si intendono anche coloro che, a titolo individuale o collettivo, si impegnano per il rispetto dei diritti dell’ambiente attraverso pratiche nonviolente. Pertanto, oggi gli attivisti ed attiviste, spesso descritti da taluna stampa o decisori politici come ecovandali o ecoterroristi (addirittura è stato approvato un disegno di legge ad hoc che inasprisce le pene pecuniarie e di detenzione per attivisti ed attiviste che svolgono azioni dirette nonviolente in musei, o monumenti4), stanno operando assolutamente all’interno dei criteri internazionalmente riconosciuti riguardo la tutela e promozione dei diritti umani. 

Il relatore speciale ONU ricorda che nel suo Commento generale n. 37 (2020) sul diritto di riunione pacifica, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha specificamente ricordato che non equivale a violenza. “la disobbedienza civile collettiva o le campagne di azione diretta possono rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 21 a condizione che non siano violente”. Inoltre, gli Stati hanno l’obbligo di rispettare e proteggere il diritto di impegnarsi nella disobbedienza civile pacifica, indipendentemente dal fatto che avvenga all’aperto, al chiuso, online o in spazi pubblici o privati.

Il diritto alla partecipazione, all’associazione, all’accesso all’informazione, al ricorso alla giustizia sono consacrati anche nella Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale di cui il nostro paese è parte. Non stupisce pertanto che il relatore speciale ONU per i difensori dell’ambiente, figura creata all’interno di tale Convenzione, stia seguendo con grande preoccupazione ed attenzione la situazione in Italia ed in altri paesi europei. Nel nostro caso, il ricorso a strumenti di diritto penale (“lawfare”) e civile per reprimere, disincentivare o criminalizzare chi oggi esercita il diritto sacrosanto a proteggere l’ambiente, ed anche la salute dei cittadini, l’uso di fogli di via, e DASPO che limitano la libertà di circolazione, la comminazione di multe ingenti mirate ad inibire il diritto alla libertà di associazione, sono pertanto in chiara violazione o per lo meno pregiudicano il rispetto pieno  degli obblighi internazionali in materia di diritti umani e civili. Va anche detto che in gran parte il combinato disposto di tali misure, pur non portando poi a condanne definitive nel campo penale rappresenta quello che viene definito “chilling effect” ossia un disincentivo ad agire. Ulteriormente aggravato da sanzioni pecuniarie spropositate che di fatto, assieme alle alte spese legali, mirano ad azzoppare la capacità di iniziativa delle associazioni e movimenti, di fatto pregiudicando il diritto alla liberà di associazione. Alcune ultime sentenze aprono però importanti spiragli. Nel caso di azioni svolte agli Uffizi a Firenze il Tribunale ha deciso per il non luogo a procedere, mentre il Tribunale di Bologna ha deciso per l’assoluzione per accuse che comprendevano danneggiamento e manifestazione non autorizzata essendo riconosciuta agli attivisti ed attiviste l’attenuante di aver agito secondo principi etici e morali. Di fatto di aver esercitato per proteggere il bene collettivo, il diritto-dovere di proteggere l’ambiente, cosa che tra l’altro è ora riconosciuta – seppur indirettamente . nella nostra Costituzione che riconosce il diritto all’ambiente.

Nel suo rapporto Forst, oltre a fornire dati sulla situazione dei difensori del clima in alcuni paesi Europei, cita anche casi relativi all’Italia, paese da lui visitato nell’aprile dello scorso anno 5. In quell’occasione si svolsero vari incontri con associazioni, movimenti ed autorità competenti, ed una conferenza stampa promossa da Amnesty International, Volere la Luna, e Rete In Difesa Di con la partecipazione tra le altre di Dana Lauriola, del Movimento No TAV e di referenti di Ultima Generazione. La scelta non era casuale visto che Torino rappresenta un caso di studio dell’accanimento repressivo e giudiziario verso gli attivisti e attiviste per la giustizia ambientale e climatica, come poi sottolineato in una conferenza stampa organizzata in seguito da Extinction Rebellion! il 17 gennaio di quest’anno 6.

Nel corso degli incontri e consultazioni svolte in cari paesi europei dal Relatore Speciale sono state registrate molteplici modalità di repressione o intimidazione, che vanno dalla delegittimazione o diffamazione a mezzo stampa o da parte di politici, all’uso di legislazione antiterrorismo o leggi ad hoc (come nel caso del decreto “ecovandali” in Italia) situazioni registrate anche in Germania, Spagna, Danimarca e Inghilterra, abusi ed arresti indiscriminati da parte delle forze di polizia (Francia, Spagna, Danimarca, Portogallo Italia), brutalità della polizia ed abusi delle autorità nel corso di proteste (Portogallo, Polonia, Spagna, Francia, Germania, Austria, Finlandia, Olanda), abusi su attivisti/e in stato di custodia (Polonia, Germania, Portogallo, Spagna, Danimarca, Finlandia), inasprimento delle pene (Spagna, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Polonia, Svezia), criminalizzazione di movimenti quali Letze Generation (Austria, Germania) o Soulevements de la Terre (Francia) , detenzione preventiva e sentenze sproporzionate.

Questa torsione repressiva contro attivisti che usano modalità di disobbedienza civile pacifica in Europa rappresenta per Forst “una grave minaccia per la democrazia e i diritti umani. L’emergenza ambientale che stiamo affrontando collettivamente, e che gli scienziati documentano da decenni, non può essere affrontata se coloro che lanciano l’allarme e esortano all’azione vengono criminalizzati per tale ragione. L’unica risposta legittima all’attivismo ambientale pacifico e alla disobbedienza civile a questo punto è che le autorità, i media e il pubblico si rendano conto di quanto sia essenziale per tutti noi ascoltare ciò che hanno da dire i difensori dell’ambiente”.

In tal senso il contributo della associazioni e dei movimenti nel contribuire all’attuazione degli accordi per il clima di Parigi, e all’abbandono della dipendenza dai combustibili fossili è ormai considerato come essenziale ed imprescindibile7. Oggi chi scende in piazza , come nel caso di XR!, o anche di Ultima Generazione o Fridays for Future, svolge un ruolo essenziale nel contribuire il prima persona alla riduzione delle emissioni e di abbandono del fossile, puntando il dito su ritardi ed incongruenze che pregiudicano il contributo  che il nostro paese può offrire nella lotta ai cambiamenti climatici. Il contributo dei movimenti, delle mobilitazioni nonviolente e delle azioni dirette nel ridurre le emissioni di gas serra è riconfermato da importanti ricerche indipendenti e stride con la modalità con la quale le autorità del nostro paese affrontano la questione. A maggior ragione a fronte dei recenti dati diffusi dall’UNEP riguardo la crescita esponenziale, nei prossimi anni, dell’estrazione di combustibili fossili a livello globale.  Esiste pertanto una forte correlazione tra il rispetto del diritto a difendere l’ambiente e la salute pubblica, del diritto a mobilitarsi per contribuire all’adozione di effettive ed efficaci politiche di contrasto ai cambiamenti climatici, e di mitigazione e riduzione delle emissioni. 

In conclusione Michel Forst formula alcune raccomandazioni agli stati membri della Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale tra le quali il rispetto degli obblighi internazionali relativi alla libertà di espressione, assemblea, ed associazione per quanto riguarda le modalità con le quali vengono trattate le iniziative di protesta e disobbedienza civili relative a questioni ambientali, e l’impegno a non utilizzare misure previste per la lotta al terrorismo o al crimine organizzato. Gli Stati membri dovranno anche intraprendere iniziative immediate per contrastare la narrazione che definisce i difensori dell’ambiente e i movimenti come criminali, e non utilizzare la crescita del numero di azioni di disobbedienza civile come pretesto per restringere gli spazi di agibilità civica e l’esercizio delle libertà fondamentali.

Un messaggio chiaro e forte al governo italiano, ed al Parlamento che ora si accinge a discutere il prima lettura in Commissione Giustizia al Senato, il “pacchetto sicurezza” che prevede tra l’altro l’inasprimento delle pene, reintroducendo il reato di “blocco stradale”. Pratica riconosciuta come forma legittima di protesta e di legittimo esercizio del diritto alla libertà di riunione pacifica e per tanto mai da considerare come reato, dalla relatrice ONU sul diritto alla associazione e riunione in una sua comunicazione sul tema dell’attivismo climatico e dei diritti umani presentata nel 2021 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 8 .

Francesco Martone, già senatore con i Verdi e poi con la Sinistra europea per 7 anni come membro delle commissioni Diritti umani e Affari esteri, è fondatore e portavoce di In Difesa Di per i diritti umani e chi li difende (una rete di ONG italiane a sostegno dei difensori dei diritti umani) e associato al Transnational Institute di Amsterdam. È giudice del Tribunale internazionale sui diritti della natura e presiede l’Assemblea dei giudici del Tribunale.

da ecor.network

Roma 2 febbraio 1977: La polizia spara. Feriti Daddo e Paolo

In 50.000 partono in corteo dirigendosi dapprima al Policlinico dove è ricoverato in gravi condizioni Guido Bellachioma e poi verso la sede del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna che viene assaltata e data alle fiamme al coro di “Sommacampagna è bruciata, la nostra vendetta è appena cominciata”.

A quel punto, in migliaia si dirigono verso la facoltà di Magistero che è stata occupata, quando improvvisamente in piazza Indipendenza una 127 bianca irrompe in coda al corteo. Ne escono due agenti in borghese che iniziano a sparare raffiche di colpi d’arma da fuoco. Sono le squadre speciali di Kossiga alla loro prima apparizione. Si tratta di poliziotti in borghese con mansioni speciali per le manifestazioni. Altri spari giungono dai diversi punti della piazza e dal corteo. Rimangono gravemente feriti uno degli agenti in borghese e due studenti, Paolo Tommasini, di 24 anni e Leonardo (Daddo) Fortuna, di 22 anni.

Sono da subito chiare per gli studenti le responsabilità della polizia nella sparatoria. Nel pomeriggio si tiene all’università un’assemblea indetta dal Comitato di lotta che denuncia la trappola poliziesca di piazza Indipendenza e chiede l’abrogazione della circolare Malfatti.

Intanto il Pci attraverso il suo giornale si schiera a difesa dell’operato delle forze dell’ordine e accusa gli studenti cosiddetti autonomi di essere sullo stesso piano dei fascisti. Questa presa di posizione del Partito comunista, totalmente proiettato verso il compromesso con la Dc, segnerà di fatto una spaccatura rinsanabile con il movimento che rivendicava invece la sua autonomia dalle organizzazioni partitiche.

Per i fatti di piazza Indipendenza nessun poliziotto è stato mai processato. Paolo e Daddo furono condannati per tentato omicidio e si fecero lunghissimi anni di galera portandosi dietro le ferite di quel giorno.

Piantedosi, il ministro di “polizia” torna alla “carica”

«Cortei totalmente illegali» Il ministro in parlamento difende gli agenti, ma non dice una parola sui ragazzi feriti. E Tajani fa la parafrasi di Pasolini: «I poliziotti sono figli del popolo, quelli che li attaccano figli di papà»

di Mario Di Vito da il manifesto

Il tono è piatto, burocratico, grigio. Come se fosse la lettura di un atto amministrativo qualsiasi, di un verbale come un altro. Matteo Piantedosi – che non a caso prima di diventare ministro è stato per tanto tempo un prefetto -, ieri, è andato prima alla Camera e poi al Senato per informare «con urgenza» i parlamentari sulle manganellate prese dagli studenti a Pisa e a Firenze la settimana scorsa. E non sono arrivate scuse, nel senso di espressioni di dispiacere, ma solo scuse da intendere come giustificazioni.

QUINDI, «non bisogna fare processi sommari alla polizia», perché gli agenti «meritano il massimo rispetto». E il problema non risiede nelle violenze in divisa, ma casomai nel «clima di crescente aggressività nei confronti delle forze dell’ordine», che a dire del ministro potrebbe anche andare a peggiorare «per crisi internazionali, problematiche socioeconomico e impegni elettorali». Così, se da un lato Piantedosi si associa alle parole di Mattarella e concede che «quando si giunge al contatto fisico con ragazzi minorenni è comunque una sconfitta ed è necessario svolgere ogni verifica con puntualità obiettività e trasparenza», dall’altro segue il percorso giustificazionista tracciato da Meloni in persona: le manifestazioni toscane sono andate in scena «in totale violazione della legge». Per non parlare di chi è sceso in piazza: i quattro denunciati sono maggiorenni, «tutti con precedenti per reati attinenti all’ordine pubblico».

LA SPIEGAZIONE pratica di quanto accaduto è la stessa fornita lunedì in consiglio dei ministri: la manifestazione di Pisa non era autorizzata, né era stata fatta una qualche comunicazione alla questura. Piantedosi, appoggiandosi al Tulps, sostiene che si tratti di qualcosa di illegale, ma in realtà la Costituzione, all’articolo 17, dice che in Italia la riunione in luogo pubblico sarebbe libera. Per quello che riguarda Firenze, invece, il ministro giustifica le botte con il fatto che ci sarebbero stati «dieci minuti di pressione» dei manifestanti sul cordone degli agenti di polizia. Tutto regolare allora. E in ogni caso, «non vi è e mai vi potrà essere alcuna direttiva ministeriale né indicazioni volte a cambiare le regole operative di gestione dell’ordine pubblico». Spazio anche a un suggerimento: «Il rischio di scontri è pari a zero se i manifestanti non pongono in essere comportamenti pericolosi o violenti rispettando le regole». E infine il canonico invito ad «abbassare i toni».

PECCATO che ad alzare i toni siano soprattutto gli esponenti della destra, che approfittano di quanto accaduto mercoledì sera a Torino – una ventina di persone ha provato a bloccare una macchina della polizia per ostacolare un trasferimento in un Cpr. Risultato: cinque denunciati a piede libero – per accusare «la sinistra» di star organizzando autentiche campagne d’odio contro le forze dell’ordine allo scopo di delegittimarle, umiliarle, usarle come antagonista politico e chissà cos’altro. L’ineffabile vicepremier Tajani spiega quanto successo negli ultimi giorni facendo la parafrasi del Pasolini più bolso, quello di Valle Giulia: i poliziotti sono «figli del popolo e spesso quelli che li attaccano sono figli di papà radical chic, violenti che non hanno nessun rispetto della legge, dell’autorità dello Stato».

NESSUNO esprime una parola di solidarietà verso gli studenti feriti dalle manganellate, molti dei quali minorenni. «Fratelli d’Italia in una nota l’altro giorno ha detto che “la sinistra spalleggia i violenti ed è causa di questi disordini” – dice la segretaria del Pd Elly Schlein -. Sono parole irresponsabili, segno di una totale mancanza di senso delle istituzioni da parte di chi governa. Se c’è una parte politica che sta strumentalizzando in modo becero questi eventi che hanno scosso il paese è proprio il partito che esprime la presidente del consiglio, alla quale chiediamo di esprimersi finalmente su questo episodio».

MELONI, dopo i fatti di Torino, in effetti però aveva parlato. Non degli episodi toscani, ma di quelli torinesi. «Pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità» è il senso del discorso. Il fatto è che non si capisce a chi sia diretta la reprimenda, se alle opposizioni o se al presidente Mattarella. Probabilmente ai primi perché anche il secondo intenda.

Buon Primo Maggio

Omosessuali, rom, disabili le vittime senza nome dell’Olocausto

Aktion T4, Porrajmos e Omocausto. Hanno un nome, quelli che in molti definiscono gli Olocausti dimenticati. Disabili, rom e omosessuali sterminati durante gli anni del nazismo, grazie anche al ruolo svolto dai regimi fascisti collaborazionisti

Spesso non hanno più un volto e una voce, perché furono in pochi a sopravvivere ai folli piani di sterminio messi in atto da Hitler e a poter, quindi, trasmettere quella Memoria, fondamentale per tramandare le atrocità commesse dall’uomo. Anche la matematica dell’orrore, quella che dovrebbe documentare e far comprendere nella sua brutalità numerica, con le cifre delle persone morte, la portata di questo sterminio, deve fare i conti con documenti fatti sparire o con (è il caso dei rom) l’assenza di una tradizione scritta. Oppure, come avviene per i gay, con la negazione della loro omosessualità, anche dopo la liberazione dai campi di concentramento

Anche i Testimoni di Geova furono perseguitati, tra il 1933 e il 1945 (diecimila internati, prevalentemente tedeschi): a loro veniva anche offerta  –  invano – la possibilità di rinunciare al loro credo religioso, in cambio della libertà. Olocausti che – come hanno fatto notare, non senza qualche polemica, alcune associazioni – si è spesso cercato di dimenticare. E sono proprio le associazioni come l’Avi (per la tutela delle persone disabili), Arcigay e Gay Center, Opera Nomadi e Aizo (rom e sinti) ad aver organizzato, nella settimana della Memoria, alcuni eventi, in tutta Italia, per cercare di far conoscere, ad esempio, l’Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, in nome dell’igiene della razza cara ai nazisti, portò alla soppressione di almeno 70mila persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da malformazioni fisiche

O l’Omocausto, che portò alla morte di almeno 7mila omosessuali nei campi di sterminio nazisti (oltre alle decine di migliaia di persone che vennero condannate sulla base del Paragrafo 175, quello che puniva gli atti e, persino, le fantasie omosessuali). E, infine, lo Porrajmos, che in lingua romaní indica la “devastazione”: furono più di mezzo milione i rom e i sinti morti nei campi di sterminio. I piani di sterminio degli zingari vennero attuati non soltanto nei territori annessi dal dominio nazista, ma anche da parte dei governi collaborazionisti, come la Romania e la Jugoslavia, che furono, insieme alla Polonia, tra i principali teatri di questa persecuzione. Ad Auschwitz erano rinchiusi nel tristemente noto Zigeunerlager, ed erano contraddistinti dal triangolo marrone. Come Barbara Ritter, cecoslovacca rom, scomparsa dieci anni fa. Una delle poche persone a raccogliere la sua testimonianza, durante un incontro che si è tenuto a Ginevra, è stata Carla Osella, presidente dell’Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi). A lei ha raccontato della deportazione nel campo, nel reparto dell’”angelo della Morte”, quel Josef Mengele noto per i suoi esperimenti medici e di eugenetica che svolse usando come cavie umane i deportati, anche bambini. “Barbara venne rinchiusa nel lager di Mengele, e qui sottoposta ad una serie di esperimenti. Le inocularono la malaria, per vedere se era in grado di guarire. Non morì, a differenza di tante persone, tutti bambini, che erano con lei”, racconta Osella. “Uno dei racconti più atroci che mi fece, fu quello che vide per protagonista un bimbo, ad Auschwitz. Per tenere buoni i bambini, Mengele era solito dar loro della cioccolata. Un giorno prese uno di questi e, proprio di fronte a Barbara, gli sparò, senza alcuna apparente motivo”.

Barbara assistette anche a numerosi tentativi di ribellione, da parte dei rom, nei confronti dei soldati nazisti. “La Ritter si salvò, perché, dopo essere stata trasferita a Buchenwald, riuscì a fuggire, mentre chi era rimasto ad Auschwitz fu ucciso”, ricorda ancora la presidente dell’associazione. Ma i racconti come questo sono pochi. “Non ho notizia, in Italia, di nessun rom sopravvissuto all’Olocausto, che sia ancora in vita  –  dice Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi  –  E poi c’è il problema, a livello di trasmissione della memoria, dell’assenza di una tradizione scritta. I rom erano spesso analfabeti”. Mezzo milione i morti certi, anche se di moltissimi zingari si è persa ogni traccia, senza che si possa dire con certezza che siano stati uccisi dai nazisti. E questo potrebbe spiegare perché altre stime parlino di un milione e mezzo di morti. In provincia di Viterbo, a Blera, ne vennero chiusi una cinquantina in un campo di concentramento repubblichino, sconosciuto ai più. “Dal settembre del 1943 al giugno del 1944”, spiega Converso, che ieri, a Roma, ha preso parte alla tradizionale fiaccolata che ricorda i rom uccisi. Silvia Cutrera, a capo dell’Avi (associazione per la vita indipendente) è, invece, riuscita a intervistare il tedesco Friedrich Zawrel: classe 1929, venne internato nello “Am Spiegelgrund”, un ricovero, a Vienna, per bambini “disturbati mentalmente”, e che, sotto il Terzo Reich, fu trasformato in “centro dell’orrore”. Era considerato affetto da comportamento deviato, perché figlio di un alcolizzato non in grado di prestare servizio militare: in più aveva anche marinato alcune lezioni, a scuola. “Ha personalmente assistito agli esperimenti condotti sui bambini, ricoverati insieme a lui  –  racconta la Cutrera  –  Non venivano uccisi, ma si somministravano loro farmaci, per vedere chi riusciva a vivere più a lungo oppure per studiare le loro reazioni. Anche lui fu costretto a prendere medicine letali”. Dopo aver subito molestie e violenze, ha cercato di fuggire. Riacciuffato, è stato segregato per un anno in una cella di isolamento: è riuscito a salvarsi soltanto grazie all’aiuto di una infermiera

Rosa era, invece, il colore del triangolo che indicava, nei campi di concentramento, gli omosessuali. “Le stime sui morti, in questo caso, sono difficilissime  –  racconta Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center  –  perché molti non volevano ammettere di essere omosessuali. Altri vennero portati nei campi di concentramento per altri motivi e, quindi, la loro omosessualità non emergeva”. “E’ una storia cancellata, la loro”, dice Porpora Marcasciano, presidente del MIT (movimento di identità transessuale) e componente del Comitato nazionale Bologna Pride 2012, “anche per colpa di quel pudore cattolico che porta a censurare determinati argomenti. E  bisogna considerare che molti gay erano anche deportati politici e non avevano alcuna intenzione di dichiarare  il loro orientamento sessuale, anche una volta liberati”. Tra i pochi  –  è forse l’unica, in Italia, a poter ancora ricordare quegli anni di persecuzioni  –  c’è la transessuale Lucy, che entrò nel campo di sterminio di Dachau come Luciano. E che, nel 2010, per la prima volta, è tornata a visitare il luogo dal quale è riuscita miracolosamente a salvarsi. “Di Omocausto si è iniziato a discutere in Italia grazie a quegli studiosi, soprattutto tedeschi, che hanno sollevato il caso  –  osserva Aurelio Mancuso, presidente di Equality  –  Fino a non molto tempo fa, una ventina di anni fa, non si parlava affatto delle vittime omosessuali. C’erano anche difficoltà relative alle fonti e ai documenti”. “Bisogna poi ricordare quelle centinaia di persone mandate al confino dal regime fascista  –  aggiunge Mancuso  –  e che, comunque, rientravano nelle persecuzioni dell’epoca contro gli omosessuali”. Mancuso evidenzia anche il ruolo chiave svolto dalle comunità ebraiche italiane nel portare alla luce la questione dell’Omocausto: “Si è fatto molto lavoro comune, fondamentale per una memoria condivisa, e tanti rabbini si sono pronunciati in merito alle persecuzioni dei gay durante il periodo nazista

Auguri di un Buon Anno!!

8M 2023: APPELLO VERSO lo SCIOPERO GLOBALE femminista e TRANSFEMMINISTA!

Non Una Di Meno

Il prossimo 8 marzo, per il settimo anno consecutivo in tutto il mondo sarà sciopero femminista e transfemminista contro la violenza maschile sulle donne e ogni forma di violenza di genere.

Scioperiamo dal lavoro dentro e fuori casa, dai ruoli di genere e da tutti i ruoli che ci vengono imposti, dai consumi.

La violenza di genere, la pandemia, la guerra, il disastro ecologico, l’inflazione: viviamo in un mondo di crisi continue che non sono emergenze ma segnali evidenti di un sistema che si sta sgretolando, un sistema ingiusto che ci costringe a vivere vite insostenibili e che vorrebbe chiuderci nell’isolamento e nell’impotenza.

In questa solitudine non vogliamo starci e insieme troviamo la forza di ribellarci, lottare e rifiutare tutto questo.

Insieme scioperiamo. Rivolgiamo questo appello:

A tutte le persone che in questi mesi hanno riempito le piazze con la loro opposizione e il loro rifiuto di questo governo, dell’ideologia…

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Ferentino 27 settembre 1970: la morte “strana” di Cinque anarchici del Sud

Nella notte tra il 26 e 27 settembre del 1970, proprio nel momento di passaggio all’ora legale, una Mini minor targata Reggio Calabria, finiva sotto un camion, sul tratto autostradale Napoli-Roma, a 58 km dalla capitale. Morivano Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, giovanissimi anarchici calabresi, i primi tre reggini. Annalise Borth, tedesca, compagna di Gianni Aricò, veniva ricoverata al San Camillo a Roma, dove morirà venti giorni dopo.

Per molto tempo si parlò di un incidente e molti strani e inquietanti elementi che avrebbero dovuto portare a investigare, non furono presi in considerazione: la polizia politica (sic!) arrivò venti minuti dopo l’incidente, furono prelevati tutti i diari, block notes e documenti dei giovani anarchici e mai restituiti alle famiglie, il camion che provocò l’impatto mortale aveva i fari spenti perché non funzionanti. La procura di Roma chiuse immediatamente il caso e non se ne parlò più finché negli anni ’90 il giudice Salvini riaprì il capitolo delle stragi di Stato e, grazie alle confessioni di un pentito (tale Lauro), scoprì che a Gioia Tauro il 22 luglio del 1970 il deragliamento del Treno del Sole, dove morirono sei persone e ci furono ben 139 feriti, non era stato un incidente. Rientrava a pieno titolo nella strategia della tensione: vennero presi gli esecutori ma, come al solito, non i mandanti, come per tutte le altre stragi di quegli anni in cui i servizi segreti (è un ossimoro definirli “deviati”) hanno avuto la regia.

Questi giovani anarchici stavano portando a Roma un dossier che riguardava proprio il deragliamento del treno e, a quanto abbiamo appreso negli ultimi anni, anche alcune informazioni importanti che riguardavano Junio Valerio Borghese e il suo tentativo di golpe.

Nel mese di settembre del 1970 Angelo Casile aveva incontrato a Palermo Mauro de Mauro, pochi giorni prima che il direttore dell’Ora di Palermo fosse fatto fuori dalla mafia siciliana. Angelo riferì che gli aveva rivelato che stava indagando su un possibile colpo di Stato in Italia.

Nessuno gli credette o lo prese in considerazione, compreso il sottoscritto. Sembravano fantasie di compagni ossessionati da quello che era successo in Grecia con il golpe dei colonnelli. Così come Gianni Aricò che disse alla madre «abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia», e lo ripeté a chi scrive, sembrava ci fosse un po’ di megalomania, malgrado le continue minacce che subivano al telefono avrebbero dovuto allarmarci.

Oggi sappiamo che era tutto vero e che questi giovani anarchici del Sud sono vittime di una strage di Stato, come quella del treno fatto deragliare a Gioia Tauro, che il presidente Mattarella ha ricordato quest’anno nel cinquantesimo.

Questa storia è stata raccontata per la prima volta da Fabio Cuzzola nel 2001 (Cinque anarchici del Sud, città del sole ed.) e ristampata, con un ricco aggiornamento, oggi dalla Castelvecchi. È una storia che ha una rilevanza nazionale perché in quell’estate del 1970 scoppiava la rivolta di Reggio per il capoluogo, che veniva strumentalizzata dal Msi sul piano politico, ma che, come emerge dal libro di Cuzzola, vedeva costituirsi, per la prima volta, una nefasta alleanza tra ‘ndrangheta, destra eversiva, massoneria, servizi segreti, italiani e stranieri. Un’alleanza tragica per il nostro paese che ha prodotto stragi, lutti, e un arretramento del quadro politico proprio nel momento che più forti erano i movimenti per il superamento di questo modo di produzione capitalistico.

Un’alleanza che nasce sul terreno di una piccola città del profondo Sud e che dei giovani anarchici, da soli, avevano cercato di smascherare, mettendo a rischio la propria vita per un’ideale di libertà e giustizia. Andrebbero ricordati per questo nei libri di storia come ci ricordiamo di quelli che spesero la loro vita per liberarci dal nazifascismo.

Tonino Perna

da il manifesto

Bologna: la questura denuncia chi si oppone all’odio fascista

SIAMO TUTTƏ ANTIFASCISTƏ!

In queste ore, la questura di Bologna sta procedendo con la notifica di alcune denunce contro quel moto di rifiuto dell’odio fascista che qualche mese fa, spontaneamente, aveva visto compatta la zona universitaria.

I fatti in questione (rispetto a cui avevamo già preso parola qui: https://cuabologna.it/2022/05/20/warning-fascist-fake-news/ ) risalgono alle ultime giornate di maggio caratterizzate dal rinnovo degli organi accademici dell’unibo e sfruttate da Azione Univeristaria per gironzolare con fare smargiasso intorno a Piazza Verdi. Durante tali giornate si erano andati a verificare e moltiplicare per tutta via Zamboni episodi di provocazione, molestie, minacce, scritte xenofobe e sessiste, svastiche sui muri e il tutto era culminato il 19/05 con una simpatica irruzione all’interno dell’auletta autogestita del 38 strappando i manifesti trovati al suo interno e pisciando sui muri.

Quella stessa sera, per festeggiare una giornata piena di sane nefandezze, i prodi fascistelli andavano a zonzo innenneggiado alle camice nere e pensando di poter minacciare indisturbatamente chi gli si presentasse davanti, e fu allora che la risposta di studenti e studentesse, precari e precarie della zona uni si dimostrò compatta nel volerli via dalle proprie strade, via dai propri plessi universitari.

È quanto mai ironico come chi di giorno in giorno professa l’odio come propria fede, sia pronto ad andare a piagnucolare nelle comode aule dei tribunali non appena le proprie minacce vengono rimandate al mittente.

In un momento storico in cui tra fame, miseria, guerra e devastazione, le destre cavalcano il malcontento popolare, è bene ricordare ai Meloni, Salvini, e chi altro di turno, che la risposta dal basso sarà sempre un deciso “No”.

In un momento storico in cui l’antifascismo diventa uno slogan vuoto, diventa uno strumento da campagna elettorale, la zona universitaria continua a trasmettere come l’antifascismo vero debba essere pratica concreta e quotidiana, fuori dalle retoriche di partito e dalla stagionalità del voto.

Oggi come ieri, ZONA UNI ZONA ANTIFA!